Un’esperienza di “vita vera” che non puoi farti sfuggire è la visita ad un villaggio tradizionale cambogiano. La provincia di Ratanakiri è stata da sempre crocevia di popoli di montagna, giunti nei secoli dal Laos, dal Vietnam e dalla lontana Cina. Noi ti consigliamo di organizzare una giornata al remoto villaggio di Koh Pek.
Da Banlung si percorrono 35 km verso nord fino a raggiungere la cittadina di Voen Sai, sul fiume Tonle San. Da qui il viaggio prosegue su una piccola barca che dopo mezz’ora di avventurosa navigazione (e continui schizzi d’acqua) ti porterà al villaggio.
Koh Pek è un luogo “lontano” dalla nostra realtà quotidiana.
Non esiste l’energia elettrica, vengono usate grosse batterie per illuminare le case, e naturalmente ricaricare le batterie degli immancabili telefonini. Gli abitanti indigeni vivono in palafitte di legno dove non troverai mobili né letti. Nessuna casa ha il bagno; per i bisogni, si fa esattamente come si faceva 1000 anni fa: ci si apparta in mezzo ai campi, sotto gli sguardi curiosi di cani e cinghiali.
Per lavarsi invece la gente di Koh Pek si reca in riva al fiume, che all’alba e al tramonto è molto animato. Qualcuno si fa uno shampoo, le massaie lavano i panni, i bambini giocano a tuffarsi dal piccolo molo in legno, le ragazzine riempiono bottiglie e secchi d’acqua da improbabili pozzi. Ogni tanto attracca una chiatta traballante – l’unico mezzo di trasporto pubblico – carica di persone, motociclette, galline e sacchi di riso.
Tra le capanne troverai anche alcuni spacci che vendono beni primari,
una specie di pronto soccorso contrassegnato da una croce blu e un paio di sedie di plastica rossa, alcune rudimentali pompe di benzina per alimentare i più sgangherati motocicli che ti sarà mai capitato di vedere. Il villaggio ha anche una scuola, ma durante le ore di lezione le aule sono desolatamente semi-vuote, mentre i viali di terra rossa del villaggio sono pieni di bambini che giocano o aiutano nelle faccende quotidiane.
Convincere le famiglie a mandare i figli a scuola è un’impresa ardua. Innanzi tutto perché non si possono permettere di comprare libri, penne e quaderni. E poi perché il maestro parla khmer, la lingua ufficiale cambogiana, che da queste parti suscita sospetto. Qui si parla kachoch. E non c’è tempo da perdere davanti a una lavagna e un maestro mandato dalla “città”.
Però c’è un momento della giornata…
…in cui – insospettabilmente – la lingua khmer della capitale diventa un richiamo irrinunciabile. Di sera, dopo la cena a base di riso, maiale e verdure, le lampadine delle case si spengono, si montano le amache o si stendono le stuoie per la notte. Nel piccolo centro, invece, c’è una luce fioca che si accende e si trasforma in una strana cometa che uomini, donne, anziani e bambini iniziano a seguire, trascinando le loro ciabatte di plastica lungo i viottoli sterrati del villaggio buio pesto. Conduce, quella luce, al centro di Koh Pek.
Lì, alimentato da un generatore e agganciato alla parete esterna di una palafitta in legno,
c’è l’unico televisore del villaggio, che trasmette una soap opera cambogiana. Gli eleganti abiti delle attrici e la chioma tinta di biondo del “bello di turno” stridono maledettamente con la polvere rossa e l’oscurità della notte di Koh Pek, coi bambini mezzi nudi, con quelle famiglie che sgranocchiano uno spiedino di pollo raccolte davanti alle immagini patinate di una vita moderna che non si possono permettere.
Noi, dopo un iniziale smarrimento, abbiamo profondamente amato il villaggio di Koh Pek.
Abbiamo amato quella vita semplice, gli sguardi fieri, le risatine d’imbarazzo al nostro passaggio. Le grandi case di legno e i viali che sembrano condurre a spazi infiniti. Infine abbiamo adorato i bambini di Koh Pek, mentre camminano spensierati mano nella mano.
O riuniti in piccoli gruppi, con i loro sorrisi contagiosi, le magliette sporche e i piedi scalzi, a rincorrere il vecchio copertone di una moto e costruire castelli di fantasia fatti di sassi e piccoli rami.
È stato difficile abbandonare quegli sguardi spensierati e disarmanti. Al momento di lasciare il villaggio di Koh Pek, con il cuore colmo di meravigliose emozioni, abbiamo notato una ragazza sui 12/13 anni, indossava una maglietta rossa con la scritta: “Sorry, we are rich”. Mi dispiace, noi siamo ricchi. Ci ha colpito e fatto pensare. A lungo.
Chissà, forse in fondo ha ragione lei.
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